Matteo Bessone
Come psicologi è possibile ci sia capitato di sentire nominare l’APA, l’American Psychological Association, il ben più anziano cugino oltreoceano del nostro Ordine Nazionale. L’American Psychological Association è cosa diversa dall’omonimo e ben più celebre e potente organizzazione di categoria degli psichiatri, l’APA, American Psychiatric Assocation, il famoso produttore del DSM che informa il nostro linguaggio e crea, letteralmente, le categorie diagnostiche che seducono psicologi e psichiatri da tutto il mondo. Per evitare confusioni d’ora in avanti ci riferiremo al primo, l’associazione di categoria degli psicologi che, giusto per farci un’idea quest’anno compie 126 anni e muove un flusso di una settantina di milioni di dollari ogni anno.
Bene, questo vecchio colosso è lo stesso che si prodiga per promuovere la psicologia negli angoli più disparati della società e per farlo utilizza molti strumenti: uno dei più utilizzati è senza dubbio la ricerca. Non è un caso che, per riuscire a far riconoscere l’assistenza psicologica all’interno dei LEA in Italia, la task force del CNOP abbia fatto riferimento alla storica APA Resolution: “Recognition of psychotherapy effectiveness: The APA resolution.”(2013).
Ma ci sono altri modi in cui l’APA realizza la propria mission ovvero “l’avanzamento della psicologia come scienza e come professione e come un mezzo per promuovere la salute, l’educazione e il benessere umano”. Si tratta di una modalità tristemente sconosciuta a buona parte delle istituzioni di categoria italiane.
Lo scopo dell’APA è quello di promuovere l’avanzamento della psicologia, come scienza e come professione, all’interno del contesto sociale, lo stesso contesto all’interno del quale viene generata e alimentata la sofferenza di cui i professionisti si occupano nei propri setting
Da questo punto di vista parlare della propria professione, parlare della psicologia, parlare da psicologi, non può essere in alcun modo separato dal parlare al contesto sociale entro cui come professionisti ci muoviamo, delle responsabilità del contesto stesso nel determinare il manifestarsi della sofferenza psichica, attraverso i determinanti sociali della salute mentale.
Come psicologi invece, spesso siamo tentati di vivere rinchiusi nell’ambito dell’intrapsichico, la nostra zona di comfort. Quello che attiene alla dimensione sociale, spesso sembra non essere in relazione con la nostra professionalità. A quanto pare, però, per l’APA non è così.
In seguito alle politiche di “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump la quale ha stabilito che i minori dovessero essere separati dai propri genitori dopo l’ingresso illegale negli Stati Uniti, l’APA ha rilasciato uno statement dai toni simili a quelli dell’ONU il quale definisce, chiedendone immediatamente la cessazione,”inaccettabili e crudeli” le politiche del Presidente USA.
L’APA, nel suo statement, oltre a rifarsi alle “evidenze empiriche” da cui partono le proprie considerazioni, esprime “una profonda preoccupazione e una forte contrarietà” a quanto sta avvenendo arrivando ad “implorare che vengano riconsiderate queste politiche adeguandole a pratiche più umane” in modo da evitare che vengano alimentati “i determinanti sociali dei disturbi mentali”.
Insomma il discorso sembra essere piuttosto chiaro: non in quanto cittadini il cui orientamento politico può essere il più variegato, ma anche e sopratutto in quanto tecnici, disponiamo di alcuni strumenti, le nostre tanto amate evidenze scientifiche, grazie a cui possiamo leggere e intepretare la realtà che ci circonda. Eppure tutto questo accade pubblicamente con allarmante rarità.
Preferiamo rimanere rintanati nel campo dell’intrapsichico, al sicuro nella nostra comoda e complice neutralità politica. All’interno del contesto attuale l’unico campo forse in cui gli ordini professionali sono riusciti a prendere una posizione chiara e netta è quello relativo all’omosessualità.
Gli psicologi e le istituzioni che li rappresentano non sembrano a proprio agio, come professionisti, nel farsi portavoce delle proprie competenze all’interno dell’arena pubblica. E’ un peccato ed è difficile aspettarsi che la professione possa essere socialmente valorizzata da qualcuno se non siamo noi i primi a farlo.
D’altra parte non possiamo stupirci, questo atteggiamento ci accomuna anche alla maggior parte dei colleghi psichiatri. Già Basaglia l’osservava :””Molti tecnici infatti si limitano a esercitare la loro funzione specialistica e non vanno oltre […] ma c’è quindi un fondamentale significato politico nella nostra azione, che va oltre la divisione del lavoro fra tecnica e politica. […] Il nostro dovere di tecnici è informare l’opinione pubblica […] e come tecnici dobbiamo promuovere questa coscienza dei diritti. Se tutti i tecnici esercitassero la loro professione, questa sì che sarebbe una vera rivoluzione… “