E se la causa delle guerre fosse la (precaria) salute mentale dei sapiens?

Luigi D’Elia Ogni psicologo sociale sa molto bene che le energie psicologiche che vengono impiegate nell’indirizzare due gruppi umani random a confliggere sono infinitamente minori di quelle che sono richieste per indirizzare due gruppi conflittuali a cooperare. Nel primo caso è sufficiente fornire nomi e appartenenze minimali e affidare ai due gruppi compiti che favoriscano […]

Luigi D’Elia

Ogni psicologo sociale sa molto bene che le energie psicologiche che vengono impiegate nell’indirizzare due gruppi umani random a confliggere sono infinitamente minori di quelle che sono richieste per indirizzare due gruppi conflittuali a cooperare.

Nel primo caso è sufficiente fornire nomi e appartenenze minimali e affidare ai due gruppi compiti che favoriscano la competizione o configurino una situazione di conflitto vero e proprio (H. Tajfel; J.C. Turner).

Nel secondo caso, occorre molto tempo e molta pazienza per consentire a due gruppi già in conflitto tra loro di conoscersi, fraternizzare, darsi compiti sovraordinati e infine collaborare G. Allport; W. Stephan e C. Stephan; Pettigrew e Tropp).

Detto in altri termini: basta pochissimo a incendiare gli umani e a farli scannare tra di loro e molta fatica a spegnere la loro bellicosità.

Questione di vantaggi evolutivi?

La pace e la cooperazione sembrerebbero per la nostra specie molto più dispendiose della guerra e della competizione, seppure sappiamo, dalle frammentarie notizie provenienti dalla paleoantropologia, che i conflitti e le guerre erano, se non inesistenti, piuttosto rari in epoca preistorica (nei primi 190.000 anni di vita della specie) e si siano viceversa intensificati dal neolitico in poi (da 10.000 a questa parte) in coincidenza della domesticazione di piante e animali e, a seguire, della nascita delle città, del patriarcato, dell’espansione demografica e delle caste militari. 

Volendo semplificare: 19/20 di pace contro 1/20 di guerra. Ed allora, come si spiega la bellicosità umana vista questa enorme disparità temporale?

Sappiamo inoltre che la cooperazione di gruppo sia stata certamente uno dei principali propulsori evolutivi della nostra specie (M. Tomasello). Possiamo affermare senza tema di smentita che la capacità di cooperare nella vita di gruppi piccoli e mediani, contestualmente con lo sviluppo del linguaggio, la neotenia, lo sviluppo della mente narrativa, siano stati tra i principali motori evolutivi, motivi del successo e dell’espansione dei sapiens in questo ecosistema.

Sapiens: natura guerrafondaia o pacifica?

Difficile trarre conclusioni definitive sulla originaria natura guerrafondaia o pacifica o ambivalente della nostra specie.
In un mio precedente articolo, scritto un anno e mezzo fa, esattamente all’esordio della precedente guerra in Ukraina, e che ebbe un’inaspettata diffusione, feci una rapida e sintetica rassegna della posizione della psicoanalisi sulla guerra e sulle motivazioni profonde che portano l’uomo a spingersi in baratri così distruttivi e autodistruttivi. Riporto qui da quell’articolo la breve rassegna che può aiutare a comprendere qualcosa in più sulla bellicosità e distruttività umana:

Nel noto carteggio Freud-Einstein (Perché la guerra, in S. Freud, Opere, 1932), Freud riteneva piuttosto ineluttabile il destino pulsionale distruttivo e autodistruttivo dell’animo umano (chiamato istinto di morte), che può essere parzialmente mitigato dalla tensione civilizzatrice dell’identificazione con l’altro. Oggi chiameremmo questo concetto in termini di empatia, a cui Freud attribuiva una funzione di civilizzazione. Quanto è centrale questa riflessione per chi abbia voglia di negoziare la pace, soprattutto laddove identificazione-empatia non coincidono affatto con il concetto di simpatia. L’empatia con l’aggressore o il nemico (non la simpatia o la compiacenza) è il primissimo passo per evitare la guerra.

Anche C.G. Jung se ne occupa, (sia in Wotan, 1936, che in Dopo la Catastrofe, 1946, in Opere Comp. Boringhieri, Torino, 1985), rileggendo le colpe del popolo tedesco come forme di regressione spirituale verso culti primitivi. W. Reich parla invece di “peste emozionale” per indicare quel processo di alienazione degli individui e delle masse che, divenuti incapaci di amare autenticamente, diventano oggetti manipolabili al servizio di nazionalismi, autoritarismi e guerre.

Nell’immediato dopoguerra, la scuola filosofica di Francoforte cercò una primissima elaborazione culturale delle derive pantoclastiche del nazifascismo provando a descrivere ed esplorare la cosiddetta “personalità autoritaria” (T. Adorno et al. La personalità autoritaria, 1950), quella tendenza umana a sottomettersi e ad ubbidire all’autoritarismo corredata da specifiche caratteristiche di etnocentrismo (nazionalismo), antisemitismo, conservatorismo, convenzionalismo, disprezzo delle differenze, del confronto democratico, delle espressioni di fragilità e tenerezza, sessismo, misoginia, facilità ad accedere a risoluzioni violente e aggressive, etc.

Con E. Fromm troviamo un tentativo di elaborazione della distruttività umana (Anatomia della distruttività umana, 1973) che prova ad integrare i saperi psicoanalitici, ma epurati della teoria dell’istinto di morte, con quelli della nascente prospettiva etologica di K. Lorenz (istintivismo) e un’esplorazione antropologica delle società con minore o maggiore tensione distruttiva. Solo la specie umana, dice Fromm, aggiunge al naturale processo aggressivo di tipo difensivo e adattativo il bisogno assoluto di controllo e quindi di distruttività.

Ma è con un autore italiano, Franco Fornari (Psicoanalisi della Guerra, 1966), che probabilmente troviamo la teoria più compiuta (e a mio parere, più convincente) sulla guerra. Fornari sostiene l’ipotesi che la guerra sia un’elaborazione paranoicale del lutto e della depressione. L’esperienza del parto e della nascita rappresentano il paradigma della estrema vicinanza delle esperienze di vita e di morte. Nella mente umana si crea fin da qui l’esperienza, definita terrificante, di un nemico interno ineludibile contro cui l’invenzione del nemico esterno da controllare e uccidere diventa automaticamente compensatoria. Nella struttura coinemica della famiglia tale scissione rende possibile l’esportazione del vissuto paranoicale nella figura del padre dispotico e autoritario che si assume come compito la protezione della coppia madre-bambino e la protezione del parto e della nascita.

In buona sostanza, sia che si tratti di un “istinto di morte” come forma di una civilizzazione empatica non ancora compiuta (Freud), sia che si tratti di una regressione filogenetico-spirituale (Jung), o di una “peste emozionale” alienante (Reich), o di un istinto a sottomettersi e a massificarsi di una tipologia umana (Adorno), o di un istinto aggressivo-difensivo incontrollato (Fromm), o infine di una tendenza paranoicale in risposta al terrore di nascere e al lutto di morire (Fornari), tutti gli autori sembrano costretti a convocare in qualche modo e in qualche forma una certa causa originaria, specifica, innata, definibile come parte incompiuta, difettosa, non evoluta, talora parziale, ma comunque strutturale, del corredo comportamentale umano. A quanto pare qualcosa di ricorrente e ineducabile e inemendabile dell’animo umano, qualcosa con cui è ben difficile averci a che fare.

La buona e la cattiva notizia

A questo punto, direi, che emergono due importanti notizie, una buona ed una cattiva.

La buona notizia, a parziale smentita delle ipotesi psico-sociologiche, è che sembrerebbe, come detto in cima all’articolo, che per la gran parte del tempo di esistenza della nostra specie, non è sempre andata in questo modo, non siamo stati guerrieri e conflittuali fin dalle origini, bensì semplicemente raccoglitori e cacciatori (per 190.000 anni sui 200.000 complessivi). 

La specie sapiens-sapiens, ultimissimo cespuglio della ramificazione ominide, a sua volta ramificata ancestralmente dal ramo dei pitechi (le scimmie), sembra avere un repertorio evoluzionistico tutt’altro che basato su dotazioni naturali offensive (artigli, denti, forza, agilità, etc), anzi quasi del tutto priva di essi, bensì come detto in precedenza sulla socialità e i suoi corollari. Certo, è possibile immaginare in linea di ipotesi e del tutto in astratto, che le piccole tribù umane difendessero con ogni mezzo il frutto del loro lavoro da altri animali e da altre tribù (o altri ominidi) e il loro territorio di caccia, ma il rapporto tra demografia piuttosto bassa in epoca paleolitica e territori sconfinati a disposizione non fa supporre alcun bisogno evoluzionistico di guerreggiare. 

Non esiste quindi una “naturale distruttività” umana (casomai al massimo si potrebbe ipotizzare una tendenza innata a enfatizzare le dinamiche di appartenenza e di identità intra-gruppo in contrapposizione a quelle inter-gruppo), ma la bellicosità parrebbe essere invece un’invenzione recente della storia della specie.

Ma se non è innata, allora cos’è?

La cattiva notizia è che se la guerra non è un aspetto innato e istintivo della nostra specie, è nell’evoluzione culturale che dobbiamo cercare le cause e nei suoi numerosi bug di sistema. Dobbiamo cioè sforzarci di cercare cosa del successo evolutivo dei sapiens essi stessi hanno dovuto pagare, da un certo punto in poi, in termini di distruttività e stragi. 

Da un certo punto in poi, probabilmente con una certa gradualità, la lotta per la sopravvivenza dei gruppi umani nel passaggio tra nomadismo dei cacciatori e sedentarismo dei pastori-agricoltori (avvenuta circa 11.000-8000 anni fa in ogni angolo del mondo), non si giocava più sulla capacità di migrare e adattarsi a condizioni ambientali anche difficilissime, capacità tipiche dei cacciatori, bensì nel custodire e proteggere beni stanziali e risorse naturali concentrati negli agglomerati umani (le prime città). Da qui in poi una serie di cambiamenti epocali irreversibili in primis a carico della demografia della specie, che vede dei picchi del tutto inediti e concentrazioni mai viste (migliaia di persone contro le poche decine di unità del paleolitico) e la conseguente organizzazione sociale (in caste diseguali) e le prime, traballanti, regolamentazioni giuridiche.

Se pensiamo che alla radice della maggior parte delle guerre esistono, nel corso di tutta la storia umana, ragioni imperialistiche, espansionistiche, mercantili, quasi sempre ammantate da ragioni nazionalistiche, religioso-universalistiche, o da altri alibi e argomenti strumentali più o meno penosi, è del tutto evidente che i sapiens non sono mai riusciti a governare i propri processi di civilizzazione distinguendoli dall’insensata e irrefrenabile sete di potere che apparentemente accompagna ogni difesa delle condizioni di vita essenziali dei popoli e dei loro governanti.

Il vicino, il nemico!

Pensate a quanto (poco) conta in questi mesi di guerra Israelo-Palestinese e di guerra Russo-Ukraina il cosiddetto diritto internazionale che in teoria dovrebbe essere l’antidoto civilizzatore che regola le interferenze e le controversie tra nazioni. Il calpestamento sistematico del diritto internazionale è la cartina tornasole sia del basso livello di evoluzione e civiltà della specie sapiens, sia del suo precario stato di salute mentale.

Aver bisogno di nemici diventa in questo contesto condizione necessaria per organizzare e governare le società umane. Il paradigma paranoicale di cui parlava Franco Fornari non è più solo una risposta riflessa dell’animo umano a paure e lutti stratificati, bensì diventa l’organizzatore stabile su cui fondare l’ordine sociale e globale.

E chi meglio di altri può incarnare il tuo nemico se non in tuo prossimo, cioè il tuo vicino di casa, di confine, di interessi? 

Sentirsi sempre sotto attacco

In questa cornice, il suprematismo bianco in tutte le possibili varianti e travestimenti, in America, come in Europa e in Asia, a partire dai deliri sulle razze del secolo scorso, appare come il livello più basso mai raggiunto dalla civiltà umana in quanto a salute mentale. La rappresentazione plastica dell’agonia di una civiltà che ha immaginato di poter prevalere con i propri codici sul mondo e si risveglia nell’incubo di un pianeta superaffollato e in piena crisi ecologica.

La fine del colonialismo classico che dal XVI secolo allo scorso secolo ha retto i destini e le economie del mondo è semplicemente transitato in una forma più subdola di colonialismo gestito dagli interessi prevalenti dei mercati occidentali ma in un momento storico nel quale gli attori della scena mondiale sono cambiati o stanno cambiando e i vecchi equilibri si spostano da occidente ad oriente.

Questo scenario complessivo affolla ancora di più (come se ce ne fosse stato bisogno) il mondo di nemici. I primi conflitti militari non a caso avvengono nell’immediata periferia del presunto centro: l’Europa dell’Est e il medio oriente, storiche zone di conflitto, ma anche zone di conflitto tra culture e nodi di intersezione tra occidente e oriente. 

Una storia in bilico tra la paranoia e la realtà

Ma i nemici popolano copiosamente anche le stesse civiltà “bianche”: gli immigrati in Europa, gli islamici, i neri e i latini in America, riemerge come al solito anche l’antisemitismo, i gay, i trans, gli zingari, le donne emancipate. Persino la povertà, senza colore di pelle, diventa motivo di inimicizia. Ognuna di queste categorie rappresenta una seria minaccia all’ordine sociale nell’ottica suprematista bianca. I seguaci di Qanon elettori di Trump, variante moderna del KKK, rappresentano l’avanguardia di zombie con cui, probabilmente, saremo costretti a confrontarci nei prossimi decenni.

Miopia, impulsività, panico, distruttività, disumanizzazione dell’altro, sono segnali presenti in ogni guerra, ma oggi presenti anche nelle nostre società, di un abbassamento dello stato di salute, di lucidità, di razionalità, segnali di una crisi convulsiva di questa civiltà bianca fondata sulle diseguaglianze strutturali, sia nel suo centro, sia nelle sue periferie (Europa dell est, medio oriente), proprio dove, non a caso, scoppiano le prime violenze.

Per comprendere meglio come si auto-generano nemici e paranoie che portano ai conflitti, proviamo a ricordare per un attimo come l’iperoggetto “virus pandemico” solo pochi mesi fa abbia scatenato (e ancora prosegue nello scatenare) l’affollamento di nemici nelle menti fragili dei sapiens. 

Il primissimo nemico furono i cinesi che vivevano nelle città occidentali (chi lo ricorda? Accadeva tra gennaio e marzo del 2020), nuovi monatti spargitori di morte. Poi, immediatamente dopo, il nemico diventò il contatto umano col prossimo o, dall’altro lato, l’ordine costituito che impediva alle persone di passeggiare o costringeva chiunque a chiudersi in casa e a portare la mascherina. Poi ci fu una vera e propria efflorescenza di nemici visibili e invisibili: il siero del diavolo, i feti morti usati per il vaccino, le reazioni avverse dei vaccini nascoste dalle case farmaceutiche (qui la paranoia era parzialmente confermata, ahimé), le cure efficaci occultate per interessi economici (anche qui in parte c’erano ragioni a favore delle paranoie). Medici, scienziati, case farmaceutiche e governanti corrotti con i loro seguaci boccaloni, e dall’altra parte della barricata negazionisti analfabeti che si sparavano il phon nel naso o affermavano che era tutta una manipolazione di stato. 

Il covid-19 è stato un laboratorio-esperimento collettivo dove si è testata la salute mentale della specie e dove la produzione di paranoie e nemici, da ogni parte, ha messo in scacco ogni capacità raziocinante di mettere ordine e pace in una materia magmatica e ineffabile (iperoggettuale, appunto) come questa. 

Il covid-19 è stata una guerra civile mondiale in vitro, senza combattimenti e senza armi, ma che ha decretato lo stato di salute mentale molto precario dell’intera specie.

Subito dopo questa sorta di esperimento in vitro è arrivata la guerra vera. 

Prima un piccolo zar che si è sentito assediato nella propria storia e identità nazionale dai nemici dell’occidente, poi Israele (con il suo insulso e miope leader), con la sua lunga storia pluri-traumatica transgenerazionale che oltre a voler essere riconosciuta nel proprio legittimo dolore, sentendosi accerchiata da esso e da altri nemici (interni ed esterni), vuole oggi essere legittimata e accettata nella reiterazione infinita del trauma, che infligge da decenni ai palestinesi. 

Riflessioni conclusive

Ogni nazione guerrafondaia deve lungamente preparare il terreno costruendo nemici su nemici, talora inventandoli dal nulla (ricordate le armi di distruzione di massa in Iraq?), talora creandoli per davvero con politiche dissennate. 

Quale civiltà può mai chiedere ai suoi appartenenti di convivere continuamente con paranoie, nemici e guerre?

La risposta a questa domanda a ciò che rende il mondo di oggi così paranoico come difesa psicologica collettiva forse la possiamo rintracciare nelle ragioni più profonde che riguardano la presenza e la sopravvivenza della nostra specie su questo ecosistema, la consapevolezza di specie che oggi accomuna tutti nel medesimo destino per la quale ci attende con certezza una condizione ecologica sempre peggiore per le prossime generazioni, la certezza che ci attende un mondo sempre più inospitale.

La paranoia è dunque quella difesa verso la quale la specie opta come fuga dalla realtà per proteggersi dalla depressione derivante dalla distruzione del proprio ecosistema.

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