La storia culturale, istituzionale e organizzativa della psicoterapia italiana appare per molti versi congenitamente contraria allo sviluppo di una coscienza pubblica e sociale della propria vocazione professionale.
Luigi D’Elia
Gli psicoterapeuti italiani, tranne rari casi, non hanno opportunità di scoprire e approfondire gli aspetti sociali del proprio lavoro e quindi non si interessano, se non marginalmente, alla funzione sociale della propria professione ritenendola a torto come eccedente se non superflua rispetto al mandato privatistico che di fatto ricevono dalla propria formazione prima, e dai propri clienti dopo. Il “committente” per tanti dei nostri colleghi rimane il proprio singolo “cliente-paziente” che coincide con il “pagante” e quasi mai ci si sente di ricevere committenza dal mondo sociale di un paziente o dalla società nel suo insieme e dal disagio condiviso socialmente. Lo psicologo rimane dunque un professionista per lo più investito privatamente riguardo la sua funzione e molto poco socialmente.
Ciò accade nonostante il fatto che la stragrande maggioranza degli psicologi che poi diventeranno psicoterapeuti nei primi anni della loro professione svolgano prevalentemente lavori di eccezionale rilevanza sociale a contatto con bisogni assistenziale di ogni fascia sociale in strutture, organizzazioni, pubbliche o convenzionate con il servizio pubblico in moltissime aree di assistenza e cura (infanzia, tossicodipendenza, psichiatria, marginalità sociale, scuola, carceri, consultori, comunità, etc) , ma troppo spesso di irrilevante valenza retributiva per cui sono costretti a vivere come marginali/emarginati tali lavori, andando di fatto a rinforzare il mantra culturale per il quale l’unico lavoro che conta è quello privato, nel tuo studio, con i tuoi pazienti mediamente paganti e possibilmente economicamente solventi. Un gigantesco capitale di esperienze e di investimento di energie dirette verso i bisogni sociali quasi totalmente sprecato e successivamente dirottato su fasce socioeconomiche minoritarie. La funzione sociale della psicoterapia rimane dunque per molti versi e in molte circostanze il lato oscuro della formazione e della pratica dello psicoterapeuta, almeno qui in Italia.
Ciò è dovuto anche alla storia della nostra professione che rende di fatto le Scuole di Specializzazione in Psicoterapia (con variabile e ineguale esito) centrali formative ed identitarie quasi esclusive nella costruzione del professionista psicologo compensando il compito che in teoria spetterebbe al percorso universitario. Le scuole di specializzazione però questo compito lo svolgono da un vertice privatistico e dunque trasmettono all’allievo specializzando un mandato sociale (o forse dovremmo dire un mandato a-sociale) che è del tutto coerente con questa loro matrice privata e privatistica. Obiettivo del professionista, prodotto di questo processo, è in definitiva costruirsi nel tempo un’attività privata, al limite aprire una partita IVA e collaborare con istituzioni convenzionate dove il lavoro pur rispondendo di fatto ad un mandato sociale, viene determinato e concepito come privatistico.
Ad alimentare l’a-socialità del mandato sociale della psicoterapia ha certamente contribuito un altro fondamentale aspetto storico tipicamente italiano, ovverosia l’insufficiente collocazione pubblica della stessa. Diversamente dalla storia strutturalmente istituzionale della psichiatria che ha fatto della propria vocazione pubblica una sua specificità, i servizi di psicologia e psicoterapia in Italia sono stati caratterizzati da una disomogenietà in quanto a risorse, distribuzione e qualità a seconda della legislazione sanitaria regionale più o meno fortunata e lungimirante. In termini generali non sarebbe del tutto errato affermare che in Italia la psicoterapia pubblica è un’eventualità piuttosto rara e che è rimasta sostanzialmente lettera morta.
Psicoterapia Aperta nasce quindi su questo humus storico-culturale ma assolutamente in controtendenza rispetto all’andamento che vorrebbe gli psicologi come una categoria sempre più corporativa e all’inseguimento del posto al sole di cui godono professioni più radicate e benestanti.
Nasce esattamente per rappresentare quella parte della professione che avverte eticamente centrale il nostro ruolo pubblico e sociale anche se esercitato privatamente.