di Federica De Filippi
Quando sentiamo parlare di sviluppo sostenibile pensiamo facilmente all’ambito ambientale ed a quello economico, ma altre due aree compongono il costrutto così come definito da O.M.S., O.N.U. ed U.N.E.S.C.O.
- Sostenibilità istituzionale: capacità di assicurare condizioni di stabilità, democrazia, partecipazione, giustizia.
- Sostenibilità sociale: capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuite per classi e genere.
Nel 2001 inoltre, l’ U.N.E.S.C.O. ha ampliato il concetto indicando che:
“la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale.“
La prassi sanitaria è dunque evidentemente coinvolta nell’applicazione di questi principi. Accade però che si generino dei vuoti comunicativi tra il senso scientifico e il senso comune tali per cui le istituzioni non riescono a soddisfare (neanche ad intercettare) le esigenze della società. La scienza, infatti, si concentra su dimostrazioni sperimentali ed utilizza parametri di efficacia misurabili che possono allontanarla da significati soggettivi ed esperienza quotidiana. Può succedere, e nella realtà dei fatti succede spesso, che alcune dinamiche restino sepolte sotto ad un semplicistico “è ovvio che sia così”.
Questo è proprio ciò che credo sia successo agli assunti della sostenibilità sociale ed istituzionale.
Un illustre psichiatra contemporaneo ha in effetti denunciato il pericolo di una “scienza che non pensa” perciò, volendo portare avanti la profondità delle sue osservazioni ed agire concretamente nel mondo per migliorarlo, è lecito domandarsi: è ovvio che chi non ha un nutrito stipendio non possa beneficiare delle terapie per la cura della propria salute mentale, emotiva e relazionale? È ovvio, in pratica, che chi non può dare non deve ricevere? E se non potesse dare, invece, proprio perché non riceve? Insomma, nasce prima l’uovo o la gallina? Poco conta per chi aderisce a psicoterapia aperta, perché per cambiare veramente le cose bisogna agire nel mondo sfrondando i ragionamenti utili ed efficaci dalle elucubrazioni mentali. Personalmente applico da sempre il metodo del problema del cominciamento (Husserl) secondo cui ogni teoria deve essere costantemente sottoposta al vaglio dell’esperienza. Così, procedendo a zig-zag tra la teoria e i vissuti personali, si producono delle validazioni scientifiche coerenti nell’ambito umano e sociale e, nel nostro contesto, si impone la riapertura della riflessione su quale pratica sia effettivamente terapeutica, desiderabile, e magari inquadrabile all’interno delle linee guida promosse dalle voci più autorevoli del panorama mondiale in materia di sviluppo sostenibile. Esso impone:
“di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore. […]esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita.”
Siamo ricchi di trattati per la “promozione sociale”, ma l”attuale situazione nazionale non ci concede di restare ad allietarci con dolci ragionamenti slegati da un concreta azione nel quotidiano. Un doveroso contributo al benessere individuale, alla società, all’evoluzione della coscienza collettiva, passa necessariamente dall’ampliamento dell’accessibilità alle cure. E quest’ultima non è forse direttamente proporzionale alla qualità del vissuto di “poter essere”? Proprio nell’ambito del disagio psichico, promuovere la dignità dell’esperienza significa fronteggiare l’angoscia dell’abbandono, l’angoscia di una solitudine non accolta, l’ansia di non poter raggiungere un contatto intimo non pericoloso con l’altro-da-sé, malesseri caratteristici di questo tempo odierno così liquido.
Credo che puntare il dito alla ricerca del colpevole non serva a cambiare le cose. Credo che dall’insoddisfazione possa nascere, invece, la ricerca proattiva e creativa della soluzione, e questo vale tanto per la salute psicologica quanto per la costruzione del benessere sociale. La sostenibilità deve perciò essere promossa anche dall’istituzione professionale degli psicologi. Facciamoci carico di elevare l’ovvio all’evidenza invece di consegnarlo alla banalità…
La definizione di Sviluppo Sostenibile attualmente condivisa è contenuta nel rapporto Brundtland del 1˙987 (elaborato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo)
Art. 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale
Berger P. Luckmann T., 1966 “The Social Construction of Reality”. trad. It.: (1969) “La realtà come costruzione sociale”. Ed. Il Mulino, Bologna
Borgna E., 2009a “I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia”. Feltrinelli, Milano (1a ed., 1988)
Husserl E., 1954 trad. It.: (1961) “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”. Il Saggiatore, Milano
Davico L., 2004 “Sviluppo sostenibile. Le dimensioni sociali”. Ed. Carocci, Roma
Bauman Z., 1999 trad. It.: (2009) “La solitudine del cittadino globale”. Feltrinelli, Milano